lunedì 18 luglio 2011

JAN VERMEER: TESTO TEATRALE, RAPPRESENTAZIONI, WORK-IN-PROGRESS




"JAN VERMEER" è un Intervento Teatrale, scritto da Alberto Macchi, in lingua italiana, nel 2011 a Roma, inedito.

Scena Unica: CHI SONO REALMENTE
Delft, anno 1675. Si sente una musica. Un manichino di spalle al pubblico simula Jan Vermeer negli abiti del pittore al lavoro. Si trova in fondo a sinistra sulla scena, davanti al suo cavalletto, con in mano i pennelli e la tavolozza dei colori. Intanto il vero Jan Vermeer, flemmatico percorre lo studio da sinistra a destra e da destra a sinistra. Improvvisamente s’accomoda su una di quelle sedie caratteristiche rappresentate nei suoi dipinti e rivolto al pubblico.
JOHANNES: Perché vi ho convocati qui in teatro, a voi tutti? Non certo per esibirmi come farebbe un attore. È che è giunto il momento, prima di crepare, di rivelarvi chi realmente sono stato e sono io! Ma incominciamo da certe mie radicate convinzioni. Io sono, per mia indole, una figura costantemente immersa nel mistero, magari un animale socievole, ma misterioso; uno che resta in ombra perché spesso incapace di proporsi. Non è un caso se sono un povero disgraziato del segno zodiacale dello scorpione il quale però, se disturbato, può pungere; ma così diverso dal mio connazionale Rembrandt, un cancro benestante che invece con le sue chele egli ha sempre pizzicato, o meglio spizzicato, qua e là, vissuto bene e pertanto morto famoso soltanto cinque anni fa. Le stelle, come asseriva Tommaso Campanella, indicheranno soltanto, senza determinare, ma agli astri e a quello che essi predicono io ci credo. Devo premettere che la pigrizia è stata ed è la mia virtù artistica o, se volete, la mia rovina economica. Fin da ragazzo, infatti sono stato indolente e ribelle. Malgrado mio padre m’avesse indirizzato da questo o da quel maestro, io disegnavo e dipingevo, ma non apprendevo nulla. Avevo già tutto nella testa, sapevo già quello che in futuro avrei voluto esprimere, ma ogni volta subentrava in me la pigrizia mista all'incostanza che mi rovinava ogni buon proposito. Così ero sempre combattuto tra questi due pendieri "Devo essere vivo e vegeto!" e "Sono vivo. E vegeto!?". A me non piacevano quei quadri stereotipati, caratteristici del mio tempo. Io dovevo lavorare sulla luce, sui suoi effetti in pittura, un po’ come aveva fatto Caravaggio, ma andando oltre lui. Ma poi, per la pigrizia, finiva che preferivo aiutare mio padre nella sue molteplici attività, da quella interessantissima di tessitore di “Caffa”, un’arte, con i suoi segreti come la pittura, a quella di locandiere, a quella di mercante d’arte. Però, con lui, potevo incontrare tanta gente, d’ogni ceto sociale e visionare centinaia di quadri altrui e intere collezioni d’opere d’arte. E poi potevo seguire gli altri miei fratelli e sorelle più piccoli di me che però già aiutavano mio padre. Quindi una vita turbolenta, fatta di gente diversa proveniente da mezza Europa, una vita fatta di taverne, di incontri, di ambienti, per cui potevo avere costantemente sotto gli occhi un “variegato florilegio di umanità”, quell’umanità vera che andavo cercando, da riportare un giorno sulla tela. E poi, la sera e all’alba quelle luci diffuse in casa, la nostra dimora, tutta pace e serenità, curata da mia madre, tanto paziente, sempre tanto innamorata di mio padre e di noi tutti. Ma avvenne che improvvisamente, un giorno, ho iniziato a dipingere, senza maestri e senza allievi. Da solo. Ho continuato per oltre cinque anni; fino a quando non ho deciso di partecipare all’apprendistato della durata di sei anni, presso la Gilda di San Luca, al fine di divenire Membro di una tale Corporazione che tutela gli interessi artisti e le loro opere. Prima di essere nominato Membro della Gilda di San Luca, volli sposare, anche se tra mille difficoltà, la mia Caterina, una dama splendida che amavo da sempre. Io però protestante e lei cattolica! Potete immaginare l’indignazione delle nostre reciproche famiglie. .............................(Segue)

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